La cosa più ovvia del mondo (.4)

4.


“Piccolo mio…cosa darei per poterti abbracciare” l’uomo si esprimeva a fatica mentre piangeva.
“Papà… mi dispiace di essere venuto solo ora…” cercai una giustificazione plausibile che mi permettesse di superare quel senso di colpa agghiacciante che mi faceva scoppiare la testa e mi faceva sentire cosi piccolo ed inutile.
“Non fa niente, l’importante è che oggi tu sia venuto” disse guardandomi dritto negli occhi e sfoderando un sorriso che ringiovanì quel viso pieno di rughe premature.
Poi volse lo sguardo a mia madre, con voce piena di gratitudine “Grazie amore è il più bel regalo che potessi farmi”, mamma sorrise.

Parlai con mio padre per un ora, sono sicuro che Ed commosso dal riavvicinamento padre-figlio fece uno strappo alla regola e ci lasciò per molto più tempo di quello che normalmente veniva concesso ai detenuti.
Parlammo di Deb, della scuola, del football (era un appassionato almeno quanto me), e soprattutto parlammo della mamma.
Lei non c’era in quel momento, aveva deciso di andare a prendere un caffè per lasciarci un po’ da soli e “discutere da uomo a uomo”.
“E’ felice?” mi chiese papà, sinceramente preoccupato.
“Non lo so, mi sembra di si, non ci è mai mancato niente… a parte te” risposi.
In effetti non avevo mai visto la mamma triste, era una donna con “due palle d’acciaio” (come diceva sempre il nonno), si era rimboccata le maniche aveva lavorato in una mezza dozzina di posti diversi e ci aveva permesso di vivere in modo più che dignitoso.
“Si dà molto da fare, non credo abbia tempo per essere infelice”.
“Non so se mamma ti ha detto perché sono finito qui dentro” sembrò invecchiarsi di nuovo tutto d’un colpo.
“Si, me l’ha detto…” non sapevo bene cosa dire, avrei voluto urlargli la mia gratitudine e più di ogni altra cosa volevo abbracciarlo, era la cosa che desideravo di più al mondo ma quel vetro ci teneva lontani, separati come lo eravamo stati per tutta la vita.
La mamma tornò accompagnata da Ed che era ridotto ad una maschera di lacrime, il nasone era rosso fuoco e gli occhi erano pieni di venature scarlatte.
Si soffiò il naso con un fazzoletto che teneva nel taschino e poi disse con voce roca “Mi dispiace ragazzi, non posso darvi altro tempo, se mi beccano ad avervi concesso un’ora intera finisco in mezzo alla strada a chiedere le elemosina” spiegò cercando di non scoppiare di nuovo in lacrime.
“Ci vediamo papà” trattenni il pianto “la prossima volta che mamma viene a trovarti sarò con lei, stanne certo”, lui annui, il labbro tremante.
Ci salutammo dandoci appuntamento alla settimana successiva, e mentre camminavamo nel corridoio giallo non gli staccai gli occhi di dosso per un momento, rimase lì seduto sullo sgabello come per assimilare tutto quello che aveva appreso dalla nostra chiacchierata, in una gioiosa e incredula contemplazione.

Poi la mente si fece confusa, di nuovo quella luce bianca, e quando mi guardai attorno mi trovai in un altro posto.
Le mura erano tornate color nuvola, sembravano quasi eteree dato il loro candore.
Non ero più nella stanza delle visite, ma in una sala più stretta, sembrava un ingresso.
Di lato c’era una scrivania, rovinata, consumata dagli anni, una scrivania di legno bianco, la stessa scrivania su cui poggiavano i piedoni di Ed quando io e mamma arrivammo nel carcere.
Tutto intorno panche dello stesso legno riempivano la stanza, e infondo vidi qualcosa che mi mozzò il fiato.
Una portone gigante, sarà stato alto almeno tre metri, regale, imponente mi guardava e giudicava come se fossi una formica.
Lo sguardo corse sopra al portone attirato da una luce, un sorriso mi illuminò il volto quando me ne accorsi.
Sembrava uno di quei pannelli luminosi che indicano le uscite di emergenza nelle scuole o negli altri edifici pubblici. L’omino stilizzato e completamente nero correva con il corpo rivolto verso destra. Mi sembrò di rivedere me in quella figura cosi anonima eppure cosi somigliante, correva su uno sfondo bianco, lo stesso bianco candido che avvolgeva anche me.
Sotto la figura c’era una scritta, bianco su verde, la rilessi decine di volte per assicurarmi che non fosse frutto della mia immaginazione, ma lei era sempre lì, luminosa come un angelo che ti spalanca le braccia per portarti verso la salvezza.
“EXIT”.

Le corsi incontro, una guerra di sentimenti dentro me, l’insicurezza e la diffidenza fronteggiavano la gioia e la speranza, credevo che finalmente sarei uscito da quel posto. Quando la raggiunsi, provai a tirarla, a spingerla con tutte le forze che mi erano rimaste in corpo, e lei impassibile sembrava una montagna fatta di legno.
“No! Io devo uscire adesso, vi prego non posso più restare qui dentro! vi scongiuro!”
A pochi passi dal finale di quell’incubo ero bloccato da una porta.
“Cazzo ! Cazzo! Cazzo!” i pugni martellavano contro il legno, il dolore fisico si mescolava con quello interiore, la guerra era finita, e avevano vinto i cattivi.
Mi voltai di schiena e mi accasciai contro quel portone maledetto, crollando a terra con le ginocchia piegate e le mani che mi reggevano la testa, troppo pesante e piena di sconforto per potersi reggere da sola.
Sapevo che per vedere quella porta aperta avrei dovuto aspettare ancora un giorno, come sempre era stato, come ogni volta che una cazzo di porta aveva bloccato il mio cammino. Ma stavolta era diverso, dietro non c’era un corridoio di celle, un giardinetto interno o una cazzo di sala per parlare con i detenuti, dietro c’era l’uscita da quell’incubo, cosi diceva l’omino nero che correva nel bianco e io gli credevo, dovevo credergli.
Mi alzai controvoglia, diedi un ultima occhiata alla porta e tornai indietro, superai il blocco C, il blocco B ed arrivai finalmente alla A1.
Non avevo sonno ero troppo eccitato all’idea dell’indomani, sarei uscito, finalmente. Appena entrai nella A1 ogni parvenza di eccitazione scomparve e caddi addormentato per l’ultima volta sulla brandina.

– – – –

Non ci fu nessun “Buongiorno tesoro” a svegliarmi quel giorno, il megafono era rotto, l’avevo rotto io tirandogli contro il cuscino, adesso mi sembrava la cosa più stupida che avessi fatto. Lo guardai nostalgico, era il primo giorno da un sacco di tempo che non venivo svegliato dalla voce della mamma, poi realizzai cosa stava per succedere ed in preda all’eccitazione mi tirai su in piedi alla velocità della luce, stavo per uscire.
Spalancai la porta della cella e cominciai a correre a perdifiato verso il blocco successivo. Sfrecciai davanti al blocco B, con una rapida occhiata squadrai tutte quelle celle che mi avevano tenuto impegnato per giorni. Superai la sala delle guardie e la macchinetta degli snack, giurando a me stesso che una volta uscito di lì mi sarei rimpinzato di quei fottuti snack, e corsi lungo tutto il blocco C entrando nel giardinetto interno.
Mi fermai un attimo per riprendere fiato, mi sembrava tutto più bello, addirittura quel malvagio giardinetto di morte. Era come se le pianticelle secche e marroncine avessero ripreso un po’ del loro colore, come se il verde fosse tornato ad abitare di nuovo in quella stanza che prima era nient’altro che un cimitero vegetale, anche la pianta rampicante sembrava meno cattiva.
Attraversai la sala degli incontri con i detenuti e mi trovai finalmente nell’ingresso.
Era tutto esattamente come l’ultima volta che ero entrato, c’era la scrivania di legno bianco, le panche dello stesso colore e il portone con sopra il segnale di uscita.
Mi avvicinai lentamente, ormai ero convinto che sarei uscito, una delusione sarebbe risultata fatale, non l’avrei mai sopportata, quindi non pensai nemmeno per un secondo all’eventualità che quella non fosse l’uscita.
Appoggiai una mano tremante sulla maniglia del portone, e spinsi.
Sentì l’attrito del legno scuro della porta a contatto con il pavimento, solo in quel momento mi resi conto che si stava aprendo, continuai a spingere con tutte le forze poi una luce bianca mi investì completamente, trapassandomi da parte a parte.
…I look inside myself and see my heart is black…” I Rolling Stones sbucavano dalle casse della vecchia Ford di mia madre.
Eravamo sulla strada per tornare a casa, la giornata era stata più piacevole di quanto potessi immaginare nelle mie fantasie più ottimistiche, rivedere mio padre fu una gioia immensa, e staccarsene era stato si doloroso ma reso meno amaro dalla sicurezza che l’avrei rivisto appena sette giorni dopo.
Ormai era sera, non c’erano molte auto sulla strada e mia madre sorrideva mentre ascoltava con piacere Keiths e i suoi, canticchiando i pochi versi di “Paint it black” che conosceva.
“Tuo padre era felice come una pasqua, non si aspettava proprio una tua visita, quando ha detto che era il regalo più bello che gli potessi fare era sincero”, mi guardò colma di orgoglio e felicità “non lo vedevo cosi contento da quando eravamo una vera famiglia” lo sconforto si impadronì di lei quando realizzò quello che aveva detto.
“Lo siamo ancora” cercai di rassicurarla “non lo abbandonerò mai più”.
La Ford sfrecciava lungo le buie strade di montagna, non eravamo lontani da casa.
“Quanti anni deve scontare ancora papà?” chiesi preoccupato, mi sembrava impossibile che non lo sapessi, lei si voltò verso di me e aprì la bocca per rispondermi con la rassegnazione negli occhi. Poi accadde.
Quello che ricordo sono dei fari, bianchi come la morte, ci accecarono.
un enorme camion aveva perso il controllo e mia madre per evitarlo aveva sterzato completamente mandando l’auto fuoristrada e facendola cappottare per l’improvviso strattone allo sterzo.
Poi urla, confusione, vetri che si infrangevano e una puzza di bruciato che mi riempiva le narici e non mi lasciava respirare.
Come se avessi vissuto per la seconda volta l’incidente, spalancai gli occhi.

Sopra di me il bianco, ancora il bianco candido che mi aveva circondato per tutto quel tempo, ci misi qualche secondo a mettere a fuoco il tutto, per ricordarmi di aver appena varcato quella porta che credevo essere l’uscita al carcere e invece adesso ero sdraiato e guardavo fisso il soffitto.
Respirare mi faceva male, era come se i miei polmoni e la mia testa fossero pieni di gelide punte di ghiaccio, come se con la faccia immersa nella neve cercassi di respirare, d’istinto Strizzai gli occhi per il dolore.
“B….Ben?” sentì qualcuno parlare, la voce gli tremava. Mi chiesi com’era possibile che quel cazzo di megafono parlasse ancora, ma la voce era diversa, senza disturbi.
Poi qualcuno mi toccò, cercai di ritrarre la mano spaventato, ma l’unica cosa che riusci a fare fu aprire di nuovo gli occhi, e sentire qualcuno piangere.
Alzai piano il collo dal cuscino, mi sembrava uno sforzo sovrumano, e quasi svenni per riuscirci.
Mia madre era lì, mi reggeva una mano e piangeva scossa dai singhiozzi “Ben… sei sveglio… Ben…” sembrava incapace di dire altro, come un disco rotto che ripete testardo la stessa frase.
Mi guardai intorno con aria smarrita, il mio corpo ci metteva qualche secondo a reagire agli stimoli del cervello, era come se fosse stato immobile per settimane, ogni minimo movimento mi faceva male, eppure io sapevo che non era cosi, avevo corso fino a qualche minuto prima, avevo corso per raggiungere la libertà.
“Mamma” un filo di voce mi uscì dalle labbra, la gola grattava mentre parlavo, era doloroso.
Lei smise di piangere e mi fissò intensamente negli occhi, sembrava voler rimanere in quella posizione per l’eternità, poi come una pazza cominciò a ridere, risa di gioia “Dottore!” lo sguardo rivolto verso la porta.
Il dottore arrivo subito, appena mi vide il suo viso si illuminò “sei sveglio!”.


EPILOGO

Sono passati tre mesi dal giorno in cui mi sono risvegliato.
Mamma mi ha spiegato che dopo l’incidente l’auto prese fuoco, lei riuscì ad uscire e ad estrarre anche il mio corpo prima che le fiamme mi consumassero, poi chiamò subito i soccorsi.
Quando arrivarono mi misero d’urgenza sull’ambulanza “portatelo dentro!” urlavano mentre lei disperata e ferita credeva che fossi morto e urlava al cielo parole di dolore. Sono rimasto in coma per quasi due mesi.
Lei mi veniva a trovare tutti i giorni, ogni mattina mi dava il buon giorno, poi andava a lavorare e tornava di nuovo la sera per salutarmi prima della notte.
Una volta era venuta a trovarmi anche Deb (ci stiamo rifrequentando ora che sono tornato), era stata vicino alla mamma sin dalla notte dell’incidente ma aveva deciso che non voleva vedermi in quelle condizioni, egoisticamente aveva paura e io non mi merito di giudicarla, ho fatto la stessa cosa con mio padre per anni.
Mamma disse che quando mi avevano visto piangere e reagire all’incontro erano felicissimi, il dottore aveva detto che il pianto era un ottimo segno di ripresa e cosi avevano festeggiato.
Da quando mi sono ripreso ogni mese andiamo a trovare mio padre, è stato difficile superare il trauma per me ma soprattuto per mamma (che infatti non vuole più guidare), mi piacerebbe andare una volta a settimana come gli avevo promesso, ma la Ford è distrutta e dobbiamo farci accompagnare da Penelope, l’amica della mamma.
Non ho raccontato a nessuno della prigione, forse non sono ancora pronto o non ci credo completamente nemmeno io, forse semplicemente voglio dimenticarla per sempre.
Il ricordo è vivo, forte, tutte le sensazioni che mi divoravano lì dentro sono ancora presenti, paura, ansia e soprattuto solitudine, ma sono grato che il peggio sia passato, sono contento di essere uscito dalla mia prigione.
Si dice che il tempo lenisca tutte le ferite ma sono sicuro che non potrà mai far scomparire la paura che provo ogni sera prima di addormentarmi.
La paura di svegliarmi circondato dal bianco.

Fine

~ di Fabio su febbraio 17, 2008.

4 Risposte to “La cosa più ovvia del mondo (.4)”

  1. E cosi si chiude la storia di Ben e della sua prigione che ha abitato il blog per quattro lunghe settimane.
    Ovviamente consigli, critiche e sopratutto pareri sono più che ben (lol) accetti.
    Settimana prossima si inizia una nuova storia “Pagina Dieci”.

  2. Mi ero immaginato un finale simile (sin dalla parte 2), dove Ben era in un centro di cura dopo avere perso la memoria in una sorta di incidente.
    Bello il parallelismo tra i suoi ricordi, l’incubo della prigione e la vita reale, celata dietro un autoparlante…
    Poteva risultare banale il fatto di essere tutto un sogno, ma nel contesto che hai creato e come lo hai portato avanti nn lo e’ stato affatto, proprio per il processo interiore di Ben che lo ha portato al risveglio.
    Bella storia.

  3. Auron2002:
    Mitico. Io invece fino all’ultimo non avevo capito. Pensavo che il protagonista fosse avvolto dall’incubo generato dalla paura del carcere. Invece rivelando il coma e quindi una prigionia nella prigionia mi hai sorpreso. Mi è piaciuto.
    L’unico appunto che posso fare, se me lo consenti, molto sinceramente, e per quanto possa valere il mio giudizio, dovresti provare a migliorare la punteggiatura, rileggendo e cercando di rendere il tutto più fluido e meno di “getto”. E’ quello che cerco di fare anche io. Sperimentiamo e impegnamoci e vediamo che succede. Bravissimo Fabio!

  4. bello bello e bello….veramente complimenti, letto tutto di un fiato e bellissima la fine

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