Sympathy for the Devil (.2)

2.

In seguito a quell’incidente mostruoso annullammo il tour.
Il funerale di Brad fu magnifico, c’erano le televisioni, le radio, i giornali. Migliaia di Fan piangevano per lui, cantavano a squarciagola le nostre canzoni mentre quella che sarebbe stata la sua casa per l’eternità veniva adagiata nel carro funebre abbracciata da una quantità esagerata di fiori.
Per quanto mi sforzassi di pensare che non era stata colpa mia, ma la tragica conseguenza di un incidente mortale, nel profondo dell’anima (se ancora ne avevo una) sapevo che ero stato io a mettere in moto quel casino.

Ma lo spettacolo deve andare avanti.

La morte di Brad per noi significò quasi triplicare le vendite. La nostra casa discografica fece uscire un nuovo album, “in memoria di Brad Simmons” c’era scritto sulla copertina, come un vaso di miele attirò a sé milioni di api ed orsi golosi.

Passò diverso tempo prima che decidemmo di ritornare in studio per registrare un nuovo album. Senza il nostro chitarrista principale, eravamo spaventati come cuccioli abbandonati dalla madre. Il nostro manager Mel ci presentò diversi giovinastri che aspiravano al ruolo di Lead Guitarist nel gruppo. Alla fine ne scegliemmo uno che ci ricordava Brad.
Registrammo qualche traccia. Qualitativamente era lontano persino dalla nostre peggiori canzoni dei tempi d’oro.

Cercavo di ubriacarmi ogni notte, o di farmi, per perdere la testa, era l’unico modo per non pensare a quell’uomo. A quel diavolo. A quello che avevo fatto.
Quando mi addormentavo avevo incubi, spaventosi. Così reali.
Camminavo in una affollata strada di NY nel pieno dello shopping. Intorno a me le persone che passeggiavano erano tutte felici, tutte sorridevano. In ogni faccia era ritagliata una bocca larga, innaturalmente spalancata. File di denti bianchi ed appuntiti si affacciavano da quelle labbra lunghe e sottili, quasi trasparenti. Sembrava di vedere uno squarcio sul viso che si affaccia in un universo fatto di trappole letali pronte ad impalarti. E tutti guardavano me, non potevano fare a meno di seguirmi con lo sguardo e ridere. E io crollavo in ginocchio, le mani sugli occhi per non guardarli più e la voce trasformata in urlo di disperazione.
Maestro!
Dove sono finiti i sogni che inseguivo?
Maestro!
Mi hai promesso solo bugie!
Tutto ciò che mi rimane sono le risa… le risa di chi mi sente piangere.

Quando mi svegliavo la sensazione non scompariva ma anzi persisteva per tutta la giornata, fino alla notte. Fino all’incubo successivo. Mi sentivo vuoto, anzi lo ero, empio di dolore mi trascinavo stancamente di notte in notte, senza farmi domande. Senza avere le risposte.
Se avessi parlato con me stesso, mi sarei accorto che in casa non c’era nessuno.

Sulla soglia dei trent’anni, cinque anni dopo la morte di Brad, avevamo prodotto altri due album. Sinceramente erano merda. Mancava qualcosa. Ci mancava l’anima.
La gente però non sembrava accorgersene, vendevamo alla grande e i fan avevano accettato più che bene il sostituto di Brad. Il problema era che non l’avevamo accettato noi.

Alan con il tempo aveva mandato a farsi fottere la sua moderazione, da qualche anno abbondava con l’uso di coca e aveva anche cominciato a farsi di eroina. Mike non aveva mai superato la morte del nostro amico e nonostante vivesse nel lusso più sfrenato sul suo viso possente c’era sempre un velo di tristezza.
Io avevo preso una casa a New York, proprio questa in cui ora, seduto sulla scrivania dello studio sto scrivendo la mia storia. Uscivo poco, e quando lo facevo era per lavoro. Suonavo o facevo interviste, proprio in questo periodo, vicino all’anniversario della morte di Brad quel giornalista mi domando della biografia.
Mike e Alan avevano preso casa insieme, anche loro a NY, per motivi di lavoro (il nostro studio era proprio nella grande mela). Loro non ne hanno parlato mai con nessun altro che non fossi io, e mi sento un po una merda a rivelarlo in questo scritto. Ma è fondamentale per quello che racconterò tra poche righe.
Si amavano.
Non so da quanto i loro sentimenti andassero avanti, ma in quel periodo, forse per il lutto che avevamo subito, si erano palesati ai miei occhi. Non vollero mai farlo sapere alla stampa per evitare danni d’immagine al gruppo, ma di me si fidavano. Io non li ho mai giudicati, che diritto ne avevo dopo quello che avevo fatto?

Proprio in una di quelle notti tormentate da incubi, riapparve.
Il cielo era limpido e sereno, il sole una palla di fuoco rassicurante nel cielo. Non c’erano auto. L’aria era cosi pulita e pura da dare fastidio alle mie narici abituate allo smog cittadino, e a sostanze di gran lunga peggiori.
La folla camminava gioiosa, ognuno con il suo sorriso finto. Ognuno con la bocca spalancata e piena di denti, come ogni notte. E come ogni notte caddi sulle ginocchia. Urlando di orrore mentre tutte quelle facce squarciate e abitate dal male mi guardavano e ridevano.
Poi silenzio.
Una mano fredda mi toccò sul viso. Sentivo il tentacolo di qualche viscido essere venuto da chissà quale abisso marino carezzarmi la guancia. Quando guardai a chi apparteneva quell’arto fui paralizzato, per la terza volta nella mia vita.
Elegante, capelli rossi tirati all’indietro, mani bianche che terminavano con lunghe unghie feline, il sorriso dello squalo. Era lui.
“Jake…come va?” non attese risposta. Sapeva che non gliene sarebbe arrivata alcuna.
“E’ arrivato il momento che tu mi ripaghi… di nuovo” il suo tono era gentile, caritatevole, parlava ad un animaletto indifeso.
“Ucciderai Mike Guild e Alan Ulrich”.
Qualcosa dentro di me si ruppe, non ero più paralizzato. Urlai per l’orrore.

Quando riaprì gli occhi non ero nel sogno, ma seduto nel letto di casa mia, grondante di sudore e con la gola provata dall’urlo.
Il corpo scattò in piedi, ma non sapevo cosa fare. Avevo davanti agli occhi la fine di Brad. Tentando di salvarlo l’avevo condannato, cosa mi assicurava che non avrei fatto fare la stessa sorte ad Alan e Mike?
Eppure non riuscivo a non agire, e se ad ucciderli fosse stata la mia indifferenza?
Crollai seduto sul letto. Troppe domande.
Alla fine decisi che dovevo almeno avvisarli, li chiamai a casa. Rispose Mike.
Erano le quattro del mattino, la sua voce non era quella di un uomo svegliato nel mezzo del sonno. Probabilmente non aveva dormito. Gli chiesi di venire a casa mia, dovevo parlargli di una cosa importante. Fuori aveva cominciato a piovere.
Mi raccomandai di stare attento mentre guidava, ero terrorizzato dall’ipotesi di un secondo incidente.

Quando arrivò erano quasi le cinque. Ero affacciato alla finestra sin da quando avevo attaccato il telefono, lo vidi parcheggiare e subito andai ad aprirgli la porta. Lo feci accomodare, le mani mi tremavano, ogni gesto che facevo temevo si sarebbe rivelato letale per lui. Era come se potessi ucciderlo con un solo tocco.
Gli spiegai ogni cosa, dalla notte ormai lontana in quel vicolo quando incontrai il diavolo per la prima volta. Gli raccontai della sua proposta, gli misi davanti agli occhi la verità sull’incidente accaduto a Brad e lui seguiva il mio racconto, rapito come un bambino davanti alla tv. Poi arrivai al sogno fatto poco prima, alla nuova richiesta del diavolo, avrei ucciso lui e Alan.
Non so dire se mi credette da subito, Mike non era di certo il più sveglio tra tutti noi ma non era neanche uno stupido totale. Dopo qualche minuto di silenzio in cui vidi diversi sentimenti attraversargli il viso stanco disse “Cosa facciamo?”.
In quel momento il campanello della porta suonò. Guardai verso Mike e gli dissi di non muoversi, non avevo idea di chi fosse ma alle cinque del mattino non poteva essere niente di buono.
Guardai dallo spioncino della porta. Fuori bagnato fradicio dalla pioggia c’era Alan.
Aprì la porta in fretta per evitare che prendesse freddo.
Chissà magari sarebbe morto di polmonite se avessi tardato ad aprirgli? Ero diventato proprio come una mammina premurosa e pedante.

Sono passate tre ore da quando ho aperto quella porta. I cadaveri di Alan e Mike guardano il soffitto, la bocca semiaperta di chi è morto per lo stupore, gli occhi fissi e vuoti.
Capì immediatamente che non sarebbe finita bene. Da sotto la pioggia Alan allungò un braccio verso di me, teneva una pistola in mano.

EPILOGO

Alan era fatto di brutto, gli occhi sembravano sfrecciare in cento direzioni diverse, la bocca zigzagava follemente come a masticare qualcosa che non esisteva.
“Brutto stronzo!” disse puntandomi la pistola alla faccia. Avanzò di qualche passo costringendomi a retrocedere, e quindi entrò in casa. Appena Mike lo vide in quello stato si alzò in piedi e andò verso di lui.
“Fermo!” lo minacciò Alan, le lacrime gli tagliavano a metà le guance anche se era difficilissimo distinguerle sulla pelle bagnata.
“Te la fai con questo stronzo allora eh?!” mentre guardava verso il suo compagno indicava me con la canna della pistola.
“No! Alan ragiona ti prego!” Mike cercava di spiegarsi, ma era come parlare con un muro. Alan era talmente pieno di eroina che la storia nella sua mente era già scritta, nessuno poteva cambiarla.
“Brutta … testa di cazzo…” barcollava, ma il suo braccio era teso e pronto a sparare al minimo movimento. Non sapevamo come agire, Alan era così fuori di se che avrebbe potuto ucciderci senza esitazione.
Piangeva e rideva, il viso ridotto a una maschera grottesca di disperazione pura e di beatitudine ultraterrena, la bocca che non si fermava mai dal masticare, gli occhi vacui ma ben attenti al minimo movimento.
Parlò ritmicamente, come se canticchiasse una canzone

“Così pensi di potermi lapidare… e sputarmi in un occhio…”
“Così… pensi di potermi amare… e poi lasciarmi morire…”
“No baby… non puoi farmi questo… voglio solo uscirne… voglio proprio andarmene da qui..”

E come una bellissima canzone che si interrompe di colpo, sorridendo si portò la pistola alla testa come fosse un giocattolo e sparò.
La cosa fu così improvvisa ed inaspettata che io e Mike rimanemmo per una decina di secondi a guardare quello che rimaneva della testa di Alan e il fumo che usciva dalla canna dell’arma. Si era suicidato, davanti a noi. L’eroina gli aveva raccontato una storia e lui ci aveva creduto, fino in fondo.
“ALAN! ALAN!” , Mike superò quel momento di confusione prima di me, si inginocchiò vicino al cadavere e gli prese la testa insanguinata tra le braccia. Scosso dai singhiozzi ripeteva una sola parola “Amore…”.
Prima ancora che io potessi dire una sola parola, quell’uomo grande e grosso che una volta era stato il batterista del mio gruppo, alzò gli occhi dal cadavere del suo ex compagno e li fissò sui miei. Rabbia ed odio.
Mi si avventò contro come una furia. Cademmo a terra ed un secondo dopo stava tempestando il mio viso di pugni “LI HAI UCCISI TU! TUTTI E DUE! MALEDETTO!” gridava mentre il sangue cominciava a fluire dal mio naso e dalla bocca. Con uno strattone riuscì a scrollarmelo di dosso, cadde pesantemente su un fianco ma si rimise in piedi in un batter d’occhio. Afferrò qualcosa, l’attizzatoio del caminetto e me lo conficcò in una gamba.
Urlai di dolore mentre sentivo i sensi abbandonarmi. Mi trascinai a terra per qualche metro, mentre Mike che aveva estratto l’arma improvvisata dalla mia gamba me la puntava alla testa.
Ero vicino al cadavere di Alan. Nella mano, debolmente chiusa tra le dita aveva ancora la pistola che aveva usato per ammazzarsi. Ragionai in fretta, l’istinto mi guidò “o io o lui”, l’afferrai e prima che Mike potesse colpirmi di nuovo sparai.
Una volta. Due volte. Tre volte.
Il corpo possente del mio avversario fini a terra, crivellato di colpi.
A fatica riuscì a tirarmi in piedi, la gamba era ferita gravemente.
Mike era morto. Nella mano destra come una lunga bacchetta di quelle che usava per suonare, c’era l’attizzatoio sporco del mio sangue.
Li avevo ammazzati tutti, avevo ucciso il mio gruppo. Avevo ucciso la musica.
Li avevo mandati dove l’erba è verde e le ragazze sono tutte belle.
Speravo che fosse così.

Tutto questo è successo circa tre ore fa come ho già detto.
Ho scritto questa storia perché si sappia la verità, su cos’è successo alla più grande Rock Band di tutti i tempi. Per far sapere che la morte di Brad Simmons non fu soltanto un incidente e che il massacro che troverete a casa mia non è opera di qualche serial killer da film o cazzate del genere.

In quanto a me…
Ve la ricordate quella vecchia canzone? Quella che dice “Live and let Die”, vivi e lascia morire?
Non credo di esserne capace, non dopo quello che ho fatto. La pistola che ha decimato il mio gruppo è ancora di là all’ingresso. Nel caricatore c’è ancora un numero di colpi sufficienti per raggiungerli a Paradise city.

Mentre scrivo queste ultime righe sento qualcuno chiamarmi.
“Jake!” , è quello stesso richiamo che sento ogni volta, prima che appaia lui. Il vento mi fischia tra i capelli nonostante tutte le finestre di casa siano chiuse, mi entra nelle orecchie coccolandomi e chiamandomi dolcemente. “Jake!”.
Eccomi, Arrivo…

…Fine.

~ di Fabio su marzo 24, 2008.

3 Risposte to “Sympathy for the Devil (.2)”

  1. Ed ecco giunta alla fine anche la storia del diavolo e di Jake.

    Probabilmente questa sarà per un pò l’ultima storia che posterò in questo blog, dato che per motivi principalmente di tempo a disposizione, non ho ancora ultimato la scrittura del successivo racconto.
    Cercherò sicuramente di finirlo entro la prossima settimana ma non credo che ci riuscirò visto che è il più corposo tra i racconti che ho scritto fin’ora e non vorrei rovinarlo con un finale affrettato.
    Detto questo vi ringrazio per le visite e per l’attenzione che avete dedicato alle mie storie e vi do appuntamento a prima possibile.

  2. Finale alla “Final Destination”…pieno di suspance. Una storia molto triste…che purtroppo in molte occasioni rispecchia la vita di molte Rock Band distrutte da droga e alchol.
    Aspetto i prossimi racconti (…nn ci mettero troppo pero’ ^^’).

  3. Auron2002:
    Mi è piaciuto molto il tuo ultimo racconto. Scritto bene, con una serie di citazioni letterali che fanno la loro porca figura nel marasma degli eventi.
    Belli i personaggi. Il tuo miglior racconto Fabio! 🙂

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